Da anni si discute se l’egemonia americana sia finita o in ritirata[1]. In realtà, l’ordine internazionale mostra una dinamica diversa: gli Stati Uniti non gestiscono più l’architettura del sistema, ma ne contengono le fratture. Non governano l’ordine, governano i punti in cui l’ordine rischia di rompersi. Non è una dottrina, né una strategia coerente: è un effetto emergente di decisioni parziali, spesso incoerenti, che però convergono in un risultato geopolitico stabile – impedirne il collasso totale.
Il caso di Gaza rende questo approccio visibile a occhio nudo. Non esiste un processo di pace lineare, né una tregua stabile. Esiste una sequenza di tregue temporanee, infrante e rinegoziate, tenute in vita da un intervento americano che agisce più sulla leva coercitiva che su quella consensuale[2]. La diplomazia statunitense non produce pace, ma evita l’implosione regionale: pressioni sugli alleati (incluso Israele), minacce condizionate sull’assistenza, attivazione di attori del Golfo, canali paralleli. È una forma di gestione a consumo: non stabilizza l’assetto, ma impedisce che la crisi travolga tutto.
Una logica analoga opera nel fronte ucraino. Non si punta più a un esito totale, ma alla costruzione di un congelamento negoziato delle linee di contatto, per trasferire la contesa dal fronte armato al fronte diplomatico e coercitivo[3]. Non c’è un disegno lineare: la stessa Washington alterna aperture e irrigidimenti, a seconda della fase[4]. Il risultato non è ordinato, ma è riconoscibile: mantenere la pressione su Mosca, evitare una rottura irreversibile, e tenere Kiev nel perimetro occidentale senza assumere un impegno illimitato. Anche qui l’egemonia emerge non da una dottrina dichiarata, ma dal fatto che nessun tavolo decisivo esiste senza Washington.
Il terzo campo di prova è la NATO. La pressione americana non mira più solo a un aumento di spesa; mira alla capitalizzazione industriale della difesa europea[5]. Senza filiere di munizionamento, droni, riparazioni, supply chain e interoperabilità, l’ombrello USA diventa logisticamente insostenibile. La sovranità europea, nella visione americana, non consiste nel sostituire Washington ma nel ridurre il costo sistemico dell’alleanza[6]. Il messaggio implicito è chiaro: la permanenza della protezione statunitense dipende anche dalla capacità industriale europea di reggere una guerra lunga.
Messi insieme, questi tre teatri non descrivono una nuova grande strategia americana, ma un modo di stare al mondo per attrito, un’egemonia adattiva non volontaria ma come effetto. Gli Stati Uniti non costruiscono nuovi ordini, ma impediscono che quelli esistenti saltino. Non stabiliscono equilibri duraturi, ma congelano instabilità per tranches. È un’egemonia non progettata ma risultante: episodica, intermittente, ma ancora senza rivali, perché nessun altro attore combina capacità economica, militare, coercitiva e diplomatica nello stesso volume e nello stesso tempo. La Cina potrebbe prossimamente raccogliere questo onere nelle relazioni internazionali spodestando il ruolo americano, ma ancora non sono di fatto chiare ed esplicite le sue intenzioni sull’ordine mondiale.
Per l’Europa questo schema attuale risulta ambivalente. È rassicurante, perché la protezione ultima americana non è evaporata. Ma è vincolante, perché questo tipo di egemonia non libera spazi; condiziona invece obblighi. Chi non contribuisce in capacità (non solo in retorica) resta utente dell’ordine americano, non co-autore. L’alternativa non esiste: o si integra nella catena di stabilizzazione guidata dagli USA, oppure si accetta che il baricentro delle decisioni rimanga altrove.
Gli Stati Uniti non stanno restaurando un ordine; stanno impedendo che il disordine diventi irreversibile[7]. È una leadership meno ambiziosa, ma più aderente al mondo com’è: non gestisce il sistema, gestisce le sue rotture. E nel sistema attuale, sono proprio le rotture a definire il potere.
[1] Zakaria, Fareed. “The post-American world.” New York 4 (2008): 292; Malik, Shahroo. “A World in Disarray: American Foreign Policy and the Crisis of the Old Order.” (2018): 108-110; Haass, Richard. “Present at the Disruption.” Foreign Affairs 99.5 (2020): 24-34.
[2] Nidal Al-Mughrabi, Steven Scheer. “US steps up diplomacy after Gaza truce shaken”, Reuters, 21 Ottobre 2025; Agence France-Presse, “Il piano di pace in 20 punti di Trump per Gaza”, Affari Internazionali, 30 Settembre 2025;
[3] Tom Balmforth, Steve Holland. Russian hard line on Ukraine ceasefire appears to jeopardise Putin-Trump summit, Reuters, 21 Ottobre 2025.
[4] Brendan Cole, Shane Croucher. “Russia Responds to Donald Trump’s New Proposal to End Ukraine War”, Newsweek.com, 20 Ottobre 2025.
[5] Raik, Kristi, Marcin Terlikowski, Mario Baumann. “Beyond Burden Sharing: Conceptualizing the European Pillar of NATO.” DGAP Policy Brief 14 (2025). German Council on Foreign Relations. 16 Giugno 2025; Nan Tian, Lorenzo Scarazzato, Jade Guiberteau Ricard. “NATO’s new spending target: challenges and risks associated with a political signal”, Stockhom International Peace Research institute, 27 Giugno 2025.
[6] Cody Schuette “Understanding NATO’s Burden-Sharing Debate: Political Rhetoric and Defense Spending Realities”. Small wars journals, 6 Maggio 2025.
[7] Mona Yacoubian. “The Trump Administration’s Middle East Policy: Shaping an Emerging Regional Order”, CSIS Center for Strategic & International Studies, 6 Ottobre 2025.

