Negli ultimi mesi, l’intesa tra il leader cinese Xi Jinping e Vladimir Putin sembra rafforzarsi costantemente. Un legame sempre più stretto unisce gli interessi cinesi al sostegno alla Russia e alla sua guerra in Ucraina. Secondo uno studio dell’European Council on Foreign Relations, sia i cittadini cinesi che quelli russi percepiscono questa alleanza non solo come una scelta strategica, ma come una vera e propria condivisione di valori e interessi comuni.[1] È evidente che un’alleanza di questo tipo rappresenta una minaccia significativa per l’Europa. Il problema principale è che una collaborazione sempre più profonda tra Pechino e Mosca rischia di danneggiare non solo la crescita economica dell’Unione Europea, ma di comprometterne la sicurezza ed il posizionamento nello scacchiere geopolitico mondiale. Questa situazione si inserisce in un contesto già fragile, soprattutto dopo la battuta d’arresto nelle relazioni tra l’Europa e Stati Uniti, durante la quale il sostegno da parte dell’amministrazione Trump agli interessi europei in materia di sicurezza e difesa appare sempre più instabile ed incerto.
In questo scenario, l’Unione Europea sembra rivolgersi con sempre maggiore attenzione ai Paesi limitrofi, considerandone l’integrazione come un’opportunità strategica. L’allargamento può rafforzare il progetto di difesa comune, oggi più che mai necessario per garantire la sicurezza del continente. Può inoltre rappresentare uno strumento fondamentale di stabilizzazione per molti dei Paesi attualmente instabili, come i Balcani occidentali, la Moldavia e chiaramente l’Ucraina, con l’obiettivo di rendere l’Europa un blocco più coeso e forte nelle relazioni internazionali. Le recenti tensioni e gli sviluppi politici in Serbia e in Georgia preoccupano l’Unione, che sembra, però, poter contare ancora sul sostegno dell’opinione pubblica dei Paesi candidati, in larga parte favorevole al progetto europeo. La percezione diffusa è che il tempo a disposizione sia limitato e se l’Unione vuole davvero muoversi in questa direzione, come dichiarato dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, deve farlo adesso.[2] La riattivazione del processo di allargamento, dopo una lunga fase di stallo, appare oggi come una necessità strategica.
Una fase dormiente che dura da (quasi) vent’anni:
Dopo l’allargamento del 2004-2007, il cosiddetto “Big-Bang Enlargement”, che ha introdotto nell’Unione Europea i paesi dell’ex blocco sovietico, l’unica adesione registrata è stata quella della Croazia nel 2013.[3] Da allora, l’Unione Europea non ha ampliato i propri confini. Tra il 2013 e il 2022, la politica di allargamento dell’UE si è rivelata inefficace e priva di un reale slancio, fino a diventare quasi inesistente. Il decennio passato è stato segnato da un susseguirsi di crisi e da un contesto internazionale estremamente complesso, prima la crisi del debito, poi quella migratoria, la Brexit, le tensioni in Medio Oriente, la lotta al cambiamento climatico, la guerra in Ucraina e, infine, la crisi energetica. In questo quadro, l’Unione ha preferito un approccio improntato all’esitazione e alla prudenza, con l’evidente intento di rallentare il processo di integrazione di nuovi potenziali membri. I governi europei hanno così riorientato le proprie priorità, concentrandosi sulla stabilità interna e sulla gestione delle emergenze, relegando l’allargamento a una questione secondaria nell’agenda politica. La verità è che ciò che ha impedito di imprimere un impulso concreto al processo è stata, da un lato, la mancanza di una vera volontà politica condivisa; dall’altro, le difficoltà emerse con alcuni dei nuovi stati membri, che hanno sollevato dubbi sull’efficacia dei criteri di adesione. La letteratura politologica definisce questa fase come “stanchezza da allargamento”, un fenomeno che ha spinto l’UE a cercare soluzioni alternative per promuovere stabilità e democrazia e nei suoi Paesi confinanti, senza procedere necessariamente all’adesione.[4]
I motivi dello stop alle adesioni: derive illiberali e disincanto dei paesi candidati.
Sebbene l’allargamento abbia portato benefici significativi, ha anche generato difficoltà, soprattutto nella gestione delle derive autoritarie di alcuni nuovi Stati membri, che hanno minato lo stato di diritto e la legittimità dell’Unione. I casi di Polonia e Ungheria, tra gli ultimi Paesi entrati, ne sono un esempio evidente. Prima di procedere con nuove adesioni, l’élite europea ha preferito rafforzare la coesione interna e risolvere i conflitti con governi come quello ungherese. Una consapevolezza espressa anche da Jean-Claude Juncker, che nel 2014 dichiarò di voler dare priorità al consolidamento interno dell’UE piuttosto che a nuove espansioni.[5] Un obiettivo chiaramente non raggiunto, come dimostrato dalla Brexit solo due anni dopo. A complicare ulteriormente il quadro è intervenuta la crescita dell’euroscetticismo e della sfiducia verso il progetto europeo in molti Stati membri. Inoltre, molti Paesi candidati, nei Balcani e nel Caucaso, non hanno ancora raggiunto la stabilità democratica, politica ed economica richiesta dai criteri di Copenaghen, rallentando il negoziato. Questi ritardi hanno alimentato il disincanto dei Paesi candidati, inizialmente spinti a riformarsi dalla prospettiva dell’adesione, si sono poi trovati privi di incentivi concreti. Di conseguenza, soprattutto nei Balcani occidentali, si osservano segnali di regresso democratico e una crescente resistenza alle riforme, causati sia dalla percezione che l’ingresso nell’UE sia un obiettivo irraggiungibile, sia dalle difficoltà strutturali che ne ostacolano la realizzazione.[6]
Cyber, terre rare e difesa: la riapertura dei negoziati dopo l’aggressione Russa.
L’aggressione russa all’Ucraina ha radicalmente cambiato il panorama geopolitico, rimescolando le carte in tavola e alterando il calcolo tra costi e benefici dell’allargamento dell’UE. In questo modo, il conflitto ha evidenziato l’urgenza di rafforzare la stabilità e la sicurezza del continente, creando un nuovo incentivo strategico per rilanciare il processo di adesione. Secondo un’analisi condotta dal Centro Studi e Ricerca del Parlamento Europeo, se tutti i Paesi candidati, attualmente nove, completassero il processo di adesione entro il 2035, il PIL complessivo dell’UE potrebbe aumentare tra l’8% e il 24% rispetto ai livelli attuali.[7] Tuttavia, in un periodo storico segnato dalla guerra e dal riarmo, con il piano RearmEU appena attivato, il vero incentivo all’allargamento non sarebbe solo di natura economica. L’integrazione di nuovi Stati potrebbe rappresentare una svolta decisiva in termini di cybersecurity, defence capability, approvvigionamento di terre rare e materie prime. Paesi come Georgia, Serbia e Ucraina possiedono riserve significative di rame, litio e manganese, mentre Bosnia-Erzegovina e Montenegro sono produttori chiave di bauxite.[8] L’Ucraina, impegnata in prima linea nel conflitto con la Russia, ha negli ultimi anni accelerato significativamente l’innovazione tecnologica nel settore della difesa, in particolare nell’ambito dell’intelligenza artificiale. A seguito della guerra, Kiev è diventata uno dei principali poli per lo sviluppo di queste tecnologie, sempre più determinanti nel campo della sicurezza. È evidente che l’ingresso di un Paese attualmente in guerra come l’Ucraina potrebbe, grazie al proprio know-how, contribuire in maniera significativa al rafforzamento delle capacità di difesa dell’Unione Europea, soprattutto in previsione di un’auspicata intensificazione della cooperazione nel quadro della difesa comune.
Riforme mancate, veti e scetticismo: i limiti strutturali dell’allargamento europeo.
Se l’allargamento appare una necessità vitale, il cammino verso l’adesione ufficiale dei Paesi candidati resta lungo e tortuoso. Secondo la Commissione Europea, molti di questi Stati devono ancora attuare riforme sostanziali per soddisfare i criteri di Copenaghen, anche in ambito di primo ordine come la tutela dello Stato di diritto, la lotta alla corruzione, l’indipendenza della magistratura e la tutela dei diritti fondamentali. Un ulteriore grande ostacolo è rappresentato dall’ instabilità politica interna. Oltre all’Ucraina, impegnata in una guerra su larga scala, anche Moldavia, Georgia e Serbia devono affrontare conflitti territoriali, tensioni politiche e problematiche legate all’ingerenza russa. Dal punto di vista economico, invece, persiste un forte divario tra l’UE e i Paesi candidati, che sarà difficile colmare nel breve termine. Questo divario costituisce uno dei principali motivi di esitazione per alcuni Stati membri, preoccupati dagli interrogativi legati al bilancio europeo, alla redistribuzione dei fondi di coesione e alla spesa in relazione all’agricoltura, ambiti già oggi oggetto di forti tensioni all’interno dell’Unione. Un ulteriore nodo critico è quello dell’unanimità necessaria per approvare nuove adesioni. Il rischio di veti da parte di alcuni Stati membri, come già preannunciato dal governo ungherese in relazione all’Ucraina, rende il processo ancora più incerto. Una possibile soluzione potrebbe consistere nell’introduzione del voto a maggioranza qualificata. Tuttavia, questa riforma potrebbe rivelarsi più complessa e lunga del processo di allargamento stesso. Un’altra possibile ipotesi per eludere il veto è quella di sospendere temporaneamente il diritto di voto dell’Ungheria in seno al Consiglio, ma anche questa strada appare difficile da percorrere. Come se non bastasse, l’opinione pubblica europea, a differenza di molti governi nazionali, specialmente quelli del Nord Europa, che lo scorso marzo hanno firmato una lettera congiunta per sollecitare l’accelerazione dei negoziati, non sembra essere totalmente favorevole all’adesione ucraina.

Infine, molti interrogativi sorgerebbero anche nel caso in cui la pace in Ucraina fosse solo parziale. Gli Stati membri dell’UE sarebbero davvero disposti ad accogliere un Paese che non detiene il pieno controllo del proprio territorio e che potrebbe non avere nemmeno un trattato di pace definitivo con la Russia? È difficile immaginare che l’Unione accetti un secondo caso Cipro.
Se è vero che l’allargamento rappresenta oggi una necessità geopolitica e strategica, è altrettanto vero che il percorso per realizzarlo è ancora disseminato di ostacoli complessi e richiede un impegno deciso e lungimirante da parte dell’intera classe dirigente europea.
[1]Engjellushe M., “Stumbling Blocks: Why the EU’s Future Security Depends on Successful Enlargement.” European Council on Foreign Relations (ECFR), 29 April 2025. https://ecfr.eu.
[2] Vinocur, N. “EU Aims to Fast-Track Ukraine Membership Bid in 2025.” POLITICO, 28 January 2025. https://www.politico.eu.
[3] Economides, S. “From Fatigue to Resistance: EU Enlargement and the Western Balkans.” Dahrendorf Forum IV, Working Paper No. 17, March 20, 2020: p.1-17. Economides_from_fatigue_to_resistance_published.pdf
[4] O’Brennan, J. “Enlargement Fatigue and Its Impact on the Enlargement Process in the Western Balkans.” In Brunet L.A. The Crisis of EU Enlargement, Research Report, 2013: pp. 36-44https://www.lse.ac.uk/ideas/Assets/Documents/reports/LSE
[5] Juncker, J. “A New Start for Europe” speech delivered on July 15, 2014. European Commission. https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/SPEECH_14_567.
[6] Börzel, T., A., Lebanidze B. “The Transformative Power of Europe beyond Enlargement: The EU’s Performance in Promoting Democracy in Its Neighbourhood.” East European Politics 33 (1), 2017: p. 17–35. “The transformative power of Europe” beyond enlargement: the EU’s performance in promoting democracy in its neighbourhood*: East European Politics: Vol 33, No 1 – Get Access
[7] Fernandes M., Saulnier J., and Kohorst K. EPRS | European Parliamentary Research Service: European Added Value Unit. PE 765.773, March 2025.
[8] Ibidem.
[9] Engjellushe M., “Stumbling Blocks: Why the EU’s Future Security Depends on Successful Enlargement.” European Council on Foreign Relations (ECFR), 29 April 2025. https://ecfr.eu.

Laureato con il massimo dei voti in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carli e in Studi dell’Unione Europea presso il Salzburg Centre of Excellence for EU Studies. Ha svolto tirocini presso l’Ambasciata d’Italia in Tanzania, il Parlamento Europeo e l’Istituto delle Regioni d’Europa, approfondendo temi legati alla governance dell’UE, alla cooperazione internazionale e allo sviluppo sostenibile. Appassionato di affari europei, geopolitica e relazioni euro-africane.