La storia del Sudan è segnata da un susseguirsi quasi ininterrotto di conflitti interni di matrice culturale, religiosa ed economica. A partire dall’indipendenza, ottenuta nel 1956, il Paese ha attraversato una drammatica cronologia bellica: diciassette anni di guerra civile tra il 1955 e il 1972, seguiti da un secondo conflitto civile, dal 1983 al 1998. In questo frangente, nel 1989 un colpo di Stato ha portato al potere Omar al-Bashir, che si è autoproclamato presidente, instaurando un regime autoritario; due successivi colpi di Stato, nel 2019 e nel 2021, lo hanno ufficialmente destituito, instaurando prima un governo di transizione e poi una nuova dittatura militare. Nell’aprile del 2023 è esploso un ulteriore conflitto intestino che sta conducendo il Paese verso una progressiva implosione. Tuttavia, gli Stati della comunità internazionale sembrano più interessati ad altri aspetti legati a questo strategico attore regionale, e i loro interventi, spesso ambigui o frammentari, non contribuiscono a delineare un chiaro orizzonte di fine delle ostilità.
La guerra in Sudan èsoprattutto “una guerra contro le persone”, secondo quanto dichiarato da Christopher Lockyear Segretario Generale di Medici Senza Frontiere al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, “le RSF, la SAF e le altre parti in conflitto non stanno solo fallendo nel proteggere i loro civili, stanno attivamente contribuendo alla loro sofferenza […]. Mentre in questa sede si fanno dichiarazioni, i civili rimangono invisibili, senza protezione, bombardati, assediati, stuprati, sfollati, privati di cibo, cure mediche e dignità. La risposta umanitaria vacilla, paralizzata dalla burocrazia, dall’insicurezza, dall’esitazione e da quello che rischia di diventare il più grande disinvestimento negli aiuti umanitari della storia”[1].
Cronologia della guerra
La guerra è ufficialmente iniziata il 15 Aprile 2023 a Karthoum e vede coinvolte le due braccia armate del regime: l’esercito regolare sudanese, Sudanese Arm Forces guidate dal generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan; e la milizia paramilitare creata nel 2013 e progressivamente diventata parte delle forze di sicurezza dello stato, le Rapid Support Forces, guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (Hemedti). Trattandosi di due forze militari appartenenti alla medesima architettura di sicurezza statale, non si tratta di a una rivolta di un esercito ribelle – come accaduto nelle precedenti guerre civili – bensì a uno scontro interno al potere militare stesso.
Non esiste un vero e proprio casus belli, o meglio, non si sa con certezza quale delle due parti abbia iniziato questo nuovo conflitto. Ciò che chiarifica rende i motivi del conflitto è l’inclinazione del rapporto tra i due grandi generali, a capo delle rispettive fazioni.
Inizialmente il conflitto era circoscritto ad alcune aree di Khartoum e a una porzione del Darfur. Tuttavia, il vantaggio iniziale delle RSF ha costretto il generale al-Burhan a ridefinire le strategie militari e a spostare il conflitto a Port Sudan, provocando l’estensione su scala nazionale. Di recente, le SAF hanno compiuto un’azione significativa, ossia la riconquista del palazzo presidenziale nella capitale, fino a quel momento sotto il controllo delle forze rivali: una tappa significativa, ma che non segna in alcun modo la fine della guerra.
Particolarmente preoccupante è l’esposizione del Sud Sudan agli effetti del conflitto: la fragile stabilità dello Stato confinante rischia di crollare di fronte al propagarsi della violenza, con la concreta possibilità che si inneschi un ulteriore conflitto civile nella regione.
I retroscena del conflitto e l’ascesa delle RSF
I generali oggi contrapposti, al-Burhan e Hemedti, hanno iniziato a spartirsi il controllo del territorio sudanese a partire dal 2019, anno in cui destituirono l’ex presidente Omar al-Bashir, ponendo fine a trent’anni di regime islamista autoritario. Il loro rapporto, così come la formazione delle Rapid Support Forces (RSF), affonda le radici nei conflitti che hanno scosso il Sudan a partire dalla guerra in Darfur nei primi anni del 2000.
Fin dagli anni ’80, i governi sudanesi hanno adottato la strategia di reclutare milizie di base tribale per condurre le operazioni più brutali durante i conflitti interni. La guerra in Darfur, in particolare, fu teatro di gravi violazioni dei diritti umani – violenze sistematiche, stupri e crimini commessi da queste milizie contro le comunità non arabe. Tra queste milizie filogovernative vi erano i janjāwīd, nei cui ranghi venne arruolato un giovane Mohamed Hamdan Dagalo (Hemedti), che in poco tempo raggiunse il grado di brigadier generale.
Nel 2013, su ordine di al-Bashir, fu istituito ufficialmente il corpo delle RSF: una forza paramilitare più strutturata e addestrata, concepita come apparato di supporto al regime, ma che manteneva una significativa autonomia sotto il diretto controllo di Hemedti. Questa condizione iniziale si rivelò un vantaggio strategico per Hemedti, che riuscì a prendere il controllo di importanti miniere d’oro nella provincia del Darfur, da cui tuttora ricava le risorse necessarie per finanziare le proprie operazioni militari. Tuttavia, il controllo riconosciuto era quello di al-Burhan, a capo dell’esercito regolare e de facto capo di stato.
Nel 2022, il tentativo fallimentare di avviare un governo di transizione, con a capo un’amministrazione di tipo civile, ha portato ad una rottura della collaborazione tra i due generali. Nell’accordo era previsto lo scioglimento delle RSF che sarebbero confluite nell’esercito regolare, una clausola che alimentò il timore di Hemedti di perdere il proprio potere e controllo acquisito in precedenza.
Le conseguenze umanitarie e le violazioni del Diritto Internazionale Umanitario
Come già citato precedentemente, la guerra in atto sta perpetrando gravi danni e profonde mancanze per il rispetto dei diritti umanitari. Le strategie utilizzate sono le medesime dei conflitti passati: violenze a tappeto sulla popolazione, stupri e bombardamenti a strutture sanitarie civili. Secondo l’organizzazione Armed Conflict Location & Event Data (ACLED), alla fine del 2024 il conflitto aveva causato la morte di quasi 30.000 persone, in gran partecivili vittime di bombardamenti aerei, artiglieria pesante e violenti attacchi di terra che hanno preso di mira città e altre aree densamente popolate, causando la distruzione di infrastrutture civili essenziali[2]. Per un Paese già gravemente provato da una crisi economica cronica – aggravata dall’instabilità successiva al secondo colpo di Stato contro il governo di transizione nel 2021 – e segnato da un progressivo disinteresse della comunità internazionale, che ha contribuito al collasso del sistema sanitario, l’attuale guerra rischia di essere letale.
Le ostilità attualmente in corso rientrano nella categoria dei “conflitti armati non internazionali”, ai quali è applicabile e vincolante il Diritto Internazionale Umanitario (DIU)[3]. Quest’ultimo è codificato nelle Convenzioni di Ginevra e nei relativi Protocolli aggiuntivi, a cui il Sudan ha aderito, oltre ad aver firmato – senza tuttavia ratificarlo – lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. Secondo la norma 56 del DIU, il governo è tenuto a garantire il passaggio degli aiuti umanitari[4]. Tuttavia, sia le RSF che le SAF hanno ostacolato l’accesso e l’ingresso dei soccorsi umanitari. A questa disciplina si potrebbe contrapporre un diverso corpus normativo, quello delle Nazioni Unite: la Risoluzione n. 46/182 dell’Assemblea Generale, che delinea i principi guida per gli interventi umanitari. Tra questi figurano il rispetto della sovranità statale, dell’unità nazionale e dell’integrità territoriale, prevedendo che “l’assistenza umanitaria debba essere fornita con il consenso del Paese colpito”[5].
Il rispetto di tali blocchi da parte delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie che operano sotto la loro egida, unito alle oggettive condizioni di insicurezza dovute al conflitto e alle difficoltà logistiche negli spostamenti, ha determinato una presenza estremamente limitata – se non del tutto assente – degli attori umanitari internazionali nelle regioni maggiormente colpite.
Come è intervenuta la comunità internazionale?
Nonostante la situazione tragica, è bene ricordare che il Sudan è ulteriormente penalizzato dalla sua posizione geostrategica. A livello geografico, parte del territorio sudanese risiede sul Mar Rosso, ponendosi di fronte all’Arabia Saudita e ai luoghi santi dell’Islam. Inoltre, il paese confina con l’Egitto e la Libia, due paesi chiave per ciò che concerne le rotte migratorie del Mediterraneo. Il Sudan è rinomato anche per la ricca presenza di miniere d’oro e giacimenti di petrolio, fattori che determinano un evidente interesse, in continua crescita, da parte di altre potenze, che ne trarrebbero grandi vantaggi.
Per quanto riguarda il conflitto, gli Stati della comunità internazionale, si sono limitati a fornire aiuti umanitari, evitando di intervenire direttamente sul piano militare o politico. Nell’aprile 2023, l’allora Segretario di Stato statunitense Antony Blinken riuscì a mediare un cessate il fuoco, che non venne rispettato da nessun delle parti in conflitto.
Diversa è la dinamica instauratasi con la Federazione Russa. Il generale al-Burhan è riuscito a ristabilire i rapporti con il Cremlino, nonostante nel 2024 si fossero diffuse notizie riguardanti una possibile presenza di combattenti ucraini in Sudan a fianco delle Sudanese Armed Forces (SAF). In quello stesso periodo, il gruppo mercenario russo “Wagner” ha mantenuto una presenza relativamente stabile nel Darfur, operando a supporto delle Rapid Support Forces (RSF). Tuttavia, l’interesse strategico di Mosca per l’accesso al Mar Rosso ha spinto la Russia a stipulare accordi con al-Burhan, rafforzando così la posizione delle SAF e avvicinandole a una potenziale superiorità sul campo. Sebbene sembri, quindi, che le SAF godano di un supporto prioritario, stando a quanto dichiarato dall’Ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, permane il timore che la Russia stia in realtà rifornendo di armi entrambe le fazioni, contribuendo in tal modo ad alimentare il conflitto.
Conclusioni
Nonostante alcuni tentativi di mediazione, anche attraverso conferenze interministeriali organizzate in Europa, a oltre due anni dallo scoppio del conflitto è ormai evidente che le due fazioni rivali non sono disposte a negoziare un compromesso, perseguendo piuttosto l’obiettivo di una vittoria militare totale. Eppure, si tratta di un conflitto molto travagliato e drammatico, stando a quanto riportano i dati. L’elevato numero di vittime, i crimini di guerra documentati e il crescente numero di persone colpite da malattie dovrebbero rappresentare un impulso sufficiente per mobilitare un numero proporzionale di attori internazionali, i quali, attraverso strumenti politici e diplomatici, potrebbero condurre ad una risoluzione concreta del conflitto. Considerando, però, quanto detto riguardo la posizione strategica del Sudan, e gli interessi economici correlati, la possibilità di un intervento multilaterale efficace sembra lontana ed inverosimile. Sarà, quindi, fondamentale seguire i successivi sviluppi di questo conflitto, le cui conseguenze si stanno già riversando sulla popolazione sudanese.
[1]Intervento di Christopher Lockyear al Consiglio di Sicurezza ONU, 13 Marzo 2025 https://webtv.un.org/en/asset/k1q/k1qmg2hm7s
[2]Conflict Watchlist 2025, Dicembre 2024, ACLED (https://acleddata.com/conflict-watchlist-2025/sudan/ )
[3] Henckaerts J-M., Doswald-Beck Il Diritto Internazionale Umanitario, Volume I, nella prefazione di Kellenberger J. p.xvi.
[4]Henckaerts J-M., Doswald-Beck L. Il Diritto Internazionale Umanitario, p.200, Norma 56.
[5] General Assembly Resolution n.46/182 https://reliefweb.int/report/world/ocha-message-general-assembly-resolution-46182-enar

Laureata con il massimo dei voti in European Studies, è preparata in diritto europeo comparato e mediazione interculturale. Parla fluentemente inglese e francese. Ha approfondito il diritto penale europeo con una tesi sul nuovo concetto di ‘diritto’ della Corte EDU e l’overruling giurisprudenziale. Attiva nel Terzo Settore portando avanti le attività e i progetti con Medici Senza Frontiere, è interessata al di diritto umanitario.